FARSI PRESENTI PER CONSOLARE
Testimonianza dall’ospedale
Svolgere il servizio di cappellano in ospedale mi permette di essere a contatto non solo con gli ammalati ma anche con le loro famiglie, oltre che con il personale che a vario titolo vi lavora, addetti alle pulizie, personale medico, infermieri, fisioterapisti e personale amministrativo. Così, in questi quasi due anni di servizio ho conosciuto tante persone con cui ho condiviso parte della loro esperienza di malattia o semplicemente di lavoro. Due anni in cui sono nate anche delle amicizie, persone che – guarite – sono venute a trovarmi all’Abbazia del Goleto, o figli di persone che sono in paradiso che mi chiamano a distanza di mesi per ringraziarmi dell’attenzione avuta con i loro genitori o anche con le persone che vedo quasi tutti i giorni sul posto di lavoro. Dunque un’esperienza intensa anche se a dire il vero in ospedale si trova un po’ di tutto. Dal paziente che mostra gioia nel vedere un sacerdote che passa per salutarlo a quello che appena mi vede mi chiede di uscire. Dai parenti che non mi permettono di avvicinarmi ai loro famigliari ammalati perché pensano che si potrebbero impressionare, a quelli che mi cercano per assistere agli ultimi momenti di vita dei loro cari. Anche tra i dipendenti l’accoglienza cambia da persona a persona. Cerco perciò di andare sempre con la mente aperta. Potrei raccontare tante esperienze vissute ma una in particolare mi rimane continuamente impresa nel cuore come fosse la prima volta, dico “continuamente” perché si tratta dell’incontro con le persone ricoverate nel reparto di psichiatria che si trovano lì per un tempo indeterminato. Lì ho conosciuto Mario, 65 anni, e Benito di 23; ho incontrato giovani mamme che hanno dovuto lasciare le loro famiglie perché non in grado di assicurare un ambiente idoneo ai propri figli. Ho conosciuto anche Esabà, un ragazzo nigeriano di 21 anni. Insomma, diverse persone e ciascuna con la propria storia di sofferenza non solo alle spalle ma anche di fronte agli occhi perché situazioni che non trovano facilmente una soluzione. Ad ogni modo, ciò che mi stupisce ogni volta è la loro accoglienza. A volte mi sento come la chioccia che raduna i pulcini. Proprio così. Quando entro alcuni sono nelle stanze, abbandonati sul lettino, altri giocano a carte, altri ancora guardano la televisione. Appena mi vedono si alzano, mi vengono incontro e iniziamo una processione lungo il corridoio centrale fino ad arrivare alla sala comune dove puntualmente Mario mi chiede: facciamo le preghiere? E si prega e si canta. Ho scoperto che a tutti piace cantare e allora concludiamo sempre le preghiere con i canti della tradizione cristiana che gli amici sanno a memoria. Spesso poi finiamo col cantare “Che fantastica storia è la vita” di Antonello Venditti. Già, sembra un paradosso, eppure, a modo loro, cercano di non rinunciare al loro senso di meraviglia e di stupore e mi ricordano che anche nella più grande depressione la vita non smette di mostrare un qualche aspetto di bellezza. Finita la nostra liturgia, si inizia la processione verso l’uscita. Ci salutiamo con un sorriso, ora velato dalle mascherine ma evidente dallo sguardo. Questo rito si ripete due volte la settimana, ma è sempre come fosse la prima. Ogni 11 febbraio è dedicato agli ammalati. Questa data era solita viversi, prima del Covid-19, tra varie attività sia liturgiche che culturali, per mettere al centro i fratelli e le sorelle che soffrono per qualche malattia. Quest’anno tutto ciò non sarà possibile. Nel nostro piccolo ospedale a sant’Angelo dei Lombardi quel giorno celebreremo l’Eucaristia insieme al nostro Arcivescovo ma sappiamo già che nessun paziente potrà assistervi. La PRESENZA comunque rimane importante, come segno di vicinanza a quanti sono ricoverati nella struttura. Proprio questa impossibilità di essere fisicamente vicini alla maggior parte degli ammalati è diventata per me e per chi collabora con me una provocazione: come poter accompagnare chi soffre in un momento come questo. Non è una domanda dalla facile risposta. Certo, ci auguriamo che tutto questo passi presto ma, nel frattempo, tante persone, soprattutto anziane, oltre alla fatica della malattia fisica vivono anche quella della sofferenza interiore perché si sentono abbandonate. È per questo che con la Pastorale della salute in questi mesi abbiamo cercato di sensibilizzare il personale sanitario perché abbiano una ulteriore attenzione nei confronti dei pazienti, perché il loro impegno vada oltre il lavoro dato che sono loro le uniche persone che i malati possono vedere per settimane o, in alcuni casi, per interi mesi. C’è tutta una serie di servizi che i volontari della Caritas ora non possono più svolgere, come il passare di stanza in stanza per proporre qualche lettura agli ammalati, oppure il metterli sulla sedia a rotelle e accompagnarli in cappella per la messa, o anche il prendere il telefonino e mettere in contatto con video-chiamata il paziente con qualche parente lontano. Certo, il personale sanitario non può occuparsi di tutto questo, ma senz’altro un po’ di umanità in più è necessario per rendere meno arduo il tempo della malattia. E devo dire che la bontà non manca. Chi più chi meno, nessuno è rimasto indifferente a questo appello. Proprio per questo, alla vigilia della Giornata mondiale del malato, a sant’Angelo dei Lombardi faremo un momento di Adorazione per ringraziare di tutti i gesti di tenerezza che attraverso il personale sanitario il Signore rivolge a chi soffre. Egli, che si è identificato con i piccoli, ci dia sempre la grazia di riconoscerlo nei nostri fratelli e sorelle ammalati.
fratel Jonathan Cuxil jc
Articolo pubblicato in JesusCaritasQ, febbraio 2021 – mensile online dei piccoli fratelli di Jesus Caritas: http://www.jesuscaritas.it/wordpress/?p=11791